“SETTANTA” di Simone Sarasso

Ho appena finito di leggerlo, e… ecco qua!

copertina

Mutuo quello che i Wu Ming scrivevano a proposito del loro "Manituana":
«[…] è un libro da leggere con calma, senza foga né prescia. Quando tutto accade veloce, impara a essere lento. L’acquolina va bene, la bava alla bocca no.»
Io purtroppo ho questo difetto: quando un libro mi piace, mi prende davvero… non riesco a non dedicargli ogni momento libero, non riesco a non avere, appunto, "la bava alla bocca" per capire "come va a finire".
Ma "Settanta" lo aspettavo da troppo, dall’ultima pagina di "Confine di Stato", quindi ho tentato di impormi una lettura più attenta (non sempre riuscendoci, ma tant’è…), con tanto di foglio per gli appunti sempre ripiegato dentro al libro, sempre pronto a raccogliere impressioni, spunti, riflessioni, ecc.
Il commento che segue nasce, quindi, da questi appunti, è un po’ un "divenire".
La cosa incredibile (e piacevole) è che, giunto alla fine del libro, la postfazione -quella splendida postfazione che ha scritto Sarasso– ha contemplato alcuni di questi appunti, uno su tutti: la storia raccontata non è vera (le stragi di stato, Italicus e stazione di Bologna, non sono bombe messe per uccidere i potenti di turno, scampati ad esse solo per un caso fortuito, questa è soltanto una "licenza" che ha reso l’evento più funzionale al racconto), ma è verosimile: un paese marcio, purulento, come quello descritto nel libro non è poi molto dissimile da quello putrido in cui vivevamo (viviamo!). E se questa micro-ucronia, questo minuscolo spostamento di asse, farà venire voglia a qualcuno di farsi due ricerche e cercare di capire come andarono davvero le cose (per quello che è possibile saperne, ovviamente… ché le nebbie son fitte e persistenti, da queste parti)… potremo dire che Sarasso avrà avuto ragione!
Già, perché la prima cosa che mi è venuto da domandarmi, leggendo le pagine iniziali del libro, è stata: "ma quanti saranno, oggi, gli italiani che leggendo di questo golpe tentato/abortito sapranno di cosa si sta parlando? quanti avranno un’idea di cosa sia stato il ‘Golpe Borghese‘?"… La risposta è avvilente, e rende questo libro (e "Confine di Stato" il suo predecessore, e il terzo elemento della "Trilogia Sporca", quando verrà) ancora più necessario!
Detto della "sostanza" del libro, passiamo alla sua "forma", la lingua.
"Settanta" è figlio di una scrittura eccezionale: una scrittura che in certi momenti è pura cinematografia, tanto è immaginifica. Una scrittura che a me ha ricordato tanto Giuseppe Genna, ed il suo "Hitler" (il continuo «esorbitare» del dittatore si rispecchiava benissimo in passi come «la Camera si espande, muta», oppure «Il nucleo inghiotte ossigeno, si espande, dilata i confini»). Una scrittura che fa un abbondantissimo e godibilissimo, utilizzo di tantissimi dialetti: il romanesco di Nando Gatti, il milanese di Ettore Brivido, il siciliano di Cuttieddu, il calabrese di Domenico Incatenato, ecc… (altro appunto preso durante la lettura – mi chiedevo come mai il narratore assumesse il dialetto del protagonista di cui stava parlando, ad esempio Cuttieddu che «taliò la luna» – e che poi è stato spiegato perfettamente nella postfazione).
Infine due passaggi che ho adorato: il momento in cui Nando Gatti ha la trasfigurazione e smette di recitare la parte del Commissario Girone, per diventarlo "davvero", sembra davvero di vedere quel qualcosa che gli si rompe nella testa; e quello in cui Nando/Commissario si risveglia dal coma, e qua un tarantiniano come me non poteva non apprezzare il parallelo col risveglio di Beatrix Kiddo, la sposa di "Kill Bill".

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